A different man, la recensione del film con Sebastian Stan


Dopo aver iniziato il suo cammino cinematografico con la presentazione al Sundance Film Festival nel gennaio del 2024, arriva finalmente anche nelle sale italiane il film A different man.
Edward Lemuel (Sebastian Stan, che per questo ruolo è stato premiato con l'Orso d'argento per la Miglior interpretazione al Festival di Berlino e con il Golden Globe) è un uomo affetto da neurofibromatosi, una condizione che ha reso il suo volto pesantemente sfigurato; abita a New York, dove aspira a diventare un attore, riuscendo a ottenere per lo più qualche ruolo in spot educazionali a sfondo sociale e conduce una vita essenzialmente solitaria, in un appartamentino malconcio sul cui soffitto si sta aprendo una voragine sempre più ampia e preoccupante. Un giorno nel suo condominio arriva una nuova vicina di casa, l'autrice teatrale Ingrid (Renate Reinsve, l'attrice norvegese lanciata dal film La persona peggiore del mondo,2021) che a differenza di tante altre persone non sembra farsi respingere dall'aspetto di Edward, così i due stringono amicizia; forse è anche la nascita di questo legame che spinge Edward a sottoporsi a una terapia sperimentale, che con effetti miracolosi gli fa letteralmente ottenere una nuova faccia: con un aspetto così diverso da prima che nessuno lo riconosce, Edward si crea una nuova identità, quella di Guy, agente immobiliare che ha successo sul lavoro e con le donne. Un giorno l'uomo ritrova casualmente Ingrid, che nel frattempo ha scritto una pièce teatrale ispirata proprio a lui, che si propone per il ruolo del protagonista; improvvisamente però si presenta in teatro anche Oswald (Adam Pearson), un uomo con la stessa condizione facciale che affliggeva Edward/Guy prima della cura: l'arrivo di questo inatteso rivale inizierà a destabilizzare il suo nuovo apparente equilibrio.
A different man è diretto e sceneggiato da Aaron Schimberg, che essendo nato lui stesso con palatoschisi, è interessato alle storie che gravitano attorno a persone afflitte da difetti e deformazioni estetiche; lo aveva già dimostrato anche nel suo precedente film, Chained for life (2019), inedito da noi, che aveva fra i suoi protagonisti proprio lo stesso Pearson.
Il film propone naturalmente una riflessione sul concetto di identità e su come essa sia legata alle qualità tanto interiori quanto esteriori di una persona; c'è ovviamente lo stigma legato a un aspetto non conforme a quella comunemente riconosciuta come la normalità, e che quindi può respingere, o suscitare ipocrisia intrisa di pietoso buonismo, ma anche attrarre forme di interesse un po' perverso e dunque forse più di apparenza che di sostanza; la storia mette anche in mostra, in modo sia metaforico che concreto, le maschere che spesso gli esseri umani indossano, e che rappresentano la maniera di presentarsi al mondo, oppure dietro cui nascondersi celando una parte di sé, fino a che i piani non si sovrappongono e si confondono con effetti imprevedibili.
Il discorso assume poi una valenza quasi meta dato che la vicenda ruota anche attorno al fatto di recitare un personaggio che è altro da sé, o attingere alla realtà rimaneggiandola a proprio piacimento per farla diventare un copione, mettendo dunque alla berlina anche egocentrismo, vanità e cinismo intrinsechi al mestiere dell'attore e dello scrittore. La trama infatti non ha paura di mostrare protagonisti anche sgradevoli e non privi di duplicità, oltre che pronti a sfruttare difetti e mancanze, propri e altrui, a loro vantaggio.
La pellicola è strutturata in modo tale che nella prima parte è lo stesso Sebastian Stan a interpretare Edward, sotto un impressionante lavoro di trucco prostetico, che poi cambia letteralmente pelle svelando il suo volto, cioè quello di un uomo convenzionalmente molto attraente, mentre il ruolo di Oswald è affidato ad Adam Pearson che invece soffre davvero di neurofibromatosi come il suo personaggio: si accentua così il richiamo al tema del doppio e all'invertirsi dei ruoli, rispecchiandosi l'uno nell'altro, che è un po' l'essenza stessa della storia.
Il film mostra tutte le caratteristiche di una produzione indipendente, dalla durata delle riprese (che si sono svolte in appena poco più di tre settimane) al look volutamente non patinato, con la fotografia leggermente sgranata, che ci mostra i lati decisamente meno glamour della Grande Mela; ad accompagnare le immagini una colonna sonora (a opera di Umberto Smerilli) spesso enfatica che a tratti ricorda le musiche dei vecchi film dell'orrore, andando così a riecheggiare alcuni elementi della trama (scene della "trasformazione corporea" compresa) che rimandano anche al genere horror.
A different man effettivamente non è un'opera di facile definizione, che va dalla black comedy al thriller psicologico, e in cui in più di un caso il tragico e il comico si fondono nello stesso spazio; è il terzo atto quello che spinge di più sul grottesco, rischiando di andare troppo sopra le righe e allontanarsi così da una pura meditazione cerebrale, con l'intreccio che si affolla e perde un po' di equilibrio, anche sul piano emotivo, allungando la vicenda verso un finale che sembra meno convinto ed efficace rispetto alle premesse.
Nonostante le sue imperfezioni, dunque, il film rimane un'opera intrigante e sicuramente originale, che propone qualcosa di nuovo allo spettatore stimolando domande, dubbi e riflessioni non banali.
