Venezia 81, Queer di Luca Guadagnino è l'ennesimo esercizio pleonastico
pubblicato da Erika Pomella
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Quando un regista italiano riesce ad avere successo all'estero, ad essere una voce ascoltata anche nel grande Olimpo di Hollywood, sarebbe bello (e lecito) gioire di quel successo, condividerlo, far sì che esso possa continuare il più a lungo possibile. Luca Guadagnino continua ad essere un regista molto amato al di là dell'oceano: da Io sono l'amore in poi il suo lavoro cinematografico ha sempre accolto grandi consensi. Allo stesso tempo, però, il regista italiano è anche un nome molto divisivo. Uno di quei metteur en scene che o si ama o si odia, non concedendosi alle mezze misure. In un senso o nell'altro, però, ogni suo nuovo film è sempre molto atteso e Queer non fa di certo differenza.
Tratto dal romanzo breve di William S. Burroughs che è stato pubblicato per la prima volta in Italia con il titolo di Checca, il nuovo film di Luca Guadagnino vede come protagonista assoluto Daniel Craig nei panni di Lee, un omosessuale che vive in Messico e intraprende una relazione con un ragazzo (Drew Starkey), condividendo con lui esperienze e droghe. La trama di Queer si potrebbe dunque riassumere con queste brevi righe: il viaggio sensoriale e carnale di un drogato che non riesce ad avere una relazione sana e che cerca, anche attraverso le droghe, di capire quale sia il suo posto e la sua possibilità di essere felice. O, almeno, appagato.

Ancora una volta, quindi, Guadagnino torna a parlare di ossessioni carnali, di omosessualità e lussuria e ancora una volta lo fa scendendo più verso il lato pornografico della questione, rispetto a quello erotico. Come in quasi ogni suo film precedente, Guadagnino fa avvertire la sua presenza dietro la macchina da presa, dando allo spettatore la sgradevole sensazione di essere diventato uno spettatore di una seduta di onanismo. Come si diceva qualche riga più su, Guadagnino è un regista che vive di estremismi, e tutto in Queer sembra andare in quella direzione. La sensazione che si ha per tutta la durata (eccessiva) del film è quella di non star partecipando a una conversazione, di non star assistendo a una storia, ma alla messa in scena di un regista che guarda se stesso, che è compiaciuto di guardare se stesso e non si interessa del fatto che al di là dello schermo c'è un pubblico, generalmente pagante. Uno dei gravi problemi di Guadagnino è proprio questo: dimentica troppo spesso e troppo facilmente che il cinema non è l'arte di guardarsi allo specchio, ma di raccontare agli altri ciò che si vede. Il cinema è una forma d'arte che prevede sempre un dialogo, perché se non c'è il pubblico, se non c'è un destinatario del racconto, allora il film stesso si trasforma in un monologo, in una conversazione a senso unico dove non c'è conflitto e non c'è spirito critico. E se da una parte è senz'altro vero che bisogna raccontare ciò che si vuole e ciò che si sente, senza doversi sottomettere ai più puri fanservice, è anche vero che mettersi così in mezzo, diventando una figura così ingombrante nella propria stessa storia vuol dire ergersi a mo' di giudice e di artista, facendo sì che tutta la narrazione sia in qualche modo permeata da uno strano senso di protervia che finisce con l'indispettire quel pubblico a cui il semplice voyeurismo non interessa poi granché. Una - passateci il termine - arroganza stilistica che Guadagnino mette in mostra anche nel suo stile registico, quando inserisce a caso movimenti di macchina, dissolvenza o elementi puramente tecnici non perché abbiano qualche utilità o rispondano a una necessità sperimentale, ma solo per dimostrare di saperlo e/o poterlo fare. Ne è un esempio eclatante il finale di questo film che procede per capitoli, dove Guadagnino si improvvista artista a metà strada tra Bill Viola e Terrence Malick, senza avere l'urgenza sperimentale del primo o il talento visionario del secondo.
Non basta nemmeno la presenza di un attore del calibro di Daniel Craig a salvare un film che vorrebbe dire tante cose ma finisce col non dire niente, chiuso in un ermetico senso estetico che si accompagna a una buona colonna sonora, unico elemento veramente trascinante di Queer. Lo stesso Craig, che si impegna al massimo nella costruzione di Lee e dei suoi limiti e delle sue debolezze, finisce con il diventare l'involontaria parodia di se stesso e tutto scivola verso una farsa forse non del tutto voluta, dove anche la riflessione sul termine Queer - usato in modo dispregiativo fino a più della metà degli anni Novanta - si perde in un marasma di manierismi e scene pleonastiche che spingono lo spettatore a guardare più volte l'orologio per chiedersi quanto manchi alla fine del supplizio.
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