Stefan Liberski, intervista al regista di 'L'art d'être heureux'
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Indubbiamente i festival cinematografici sono il luogo prediletto per avere l'occasione di incontrare le grandi star di Hollywood e tenere in vita quel divismo che i social network stanno mettendo sempre di più in discussione. Ma il vero compito delle rassegne cinematografiche - e la Festa del Cinema di Roma non fa differenza - è quello di presentare al pubblico anche piccoli gioielli che non riescono, nel nostro Paese, ad avere una grande distribuzione. Quei film che rischierebbero magari di passare inosservati anche se hanno molto da dire e tanto da raccontare. E' il caso, ad esempio, di L'art d'être heureux - L'arte di essere felici, film diretto da Stefan Liberski che sfrutta i toni della commedia e la tematica dell'arte come mezzo per sottolineare l'importanza di sapersi guardare intorno per comprendere quali sono le cose che contano davvero (qui trovate la nostra recensione del lungometraggio).
L'art d'être heureux di Stefan Liberski - Immagine dal set / credit: Laurent Thurin Nal; courtesy of Festa del Cinema di RomaProprio in occasione del passaggio nella kermesse romana, abbiamo avuto il privilegio e la fortuna di incontrare il regista che, dopo Tokyo Fiancé torna nella capitale con un altro film incentrato sulla ricerca della propria identità, del proprio posto nel mondo e del proprio diritto alla felicità. Ecco cosa Stefan Liberski ci ha raccontato durante l'intervista che ci ha regalato.
Quello che mi è piaciuto subito del film è il fatto che il protagonista sia, in realtà, un personaggio dubbio. Perché da una parte è un personaggio molto buono, per il quale noi facciamo il tifo. Allo stesso tempo, però, rappresenta ogni aspetto negativo della figura dell'intellettuale: è citazionistico, snob, elitario... e finisce con l'allontanare il pubblico dall'arte, invece che farlo avvicinare. Volevo sapere come aveva lavorato su questo duplice aspetto.
Per me la cosa davvero importante del film non è tanto l'arte quanto piuttosto l'umano smarrito nell'irrealtà, nel concetto, nel mondo delle idee. Penso che al giorno d'oggi sia una specie di difetto del mondo. Voglio dire, abbiamo tutti tante, tante, tante idee e siamo bombardati di immagini, al punto che non guardiamo più la realtà. Ci si difende da essa, forse perché questa è diventa insopportabile. Insostenibile. Volevo mostrare il personaggio immerso nelle sue idee, nei suoi concetti, nelle sue citazioni. Non siamo mai davvero nella realtà e per lui è come una malattia. Si arriva al punto che lui non vede più le cose ma possiamo dire che al giorno d'oggi molti dei nostri contemporanei non vedono davvero le cose. Non più. Ed ecco il gioco. Ci si immagina che un'artista veda le cose, ma questo personaggio non ci riesce. Questo è il tema del film e naturalmente l'arte concettuale fornisce un materiale perfetto, perché è un concettuale che espone il nulla, il vuoto.
Sempre per rimanere in tema, anche la struttura del film ha una sua duplicità. Siamo davanti a una commedia in cui si ride molto. Ma allo stesso tempo il personaggio è un uomo triste, solo, che parla in continuazione per riempire il silenzio. Quindi ci troviamo davanti alla commedia delle situazioni che fa da sfondo alla tragedia del protagonista. Come è riuscito a trovare l'equilibrio?
Questo è l'equilibrio del film. Leggero, ma che fa anche un po' riflettere. Lo scopo era quello, di ottenere quella miscela. Ed era scritto già all'inizio: la sceneggiatura, le riprese, il montaggio… era tutta una questione di equilibrio. E' sempre stato quello lo scopo.
Poi io volevo parlare dei personaggi femminili. Io mi sono fatta una mia idea. Poi se sbaglio mi può correggere. Perché da una parte c'è Cécile che potrebbe rappresentare l'ispirazione, così volubile e inaffidabile. Mentre Deborah, come le rocce che crea, è stabile e potrebbe essere la rappresentazione della perseveranza. Volevo sapere se avesse lavorato a questi personaggi come simboli delle varie forme d'arte.
Il personaggio di Deborah ha qualcosa di più favolistico. Fa parte della fiaba del film. Quindi direi che è un personaggio stabile in quel senso lì. Ma non è un personaggio così sottile. Doveva trovarsi lì, per me, perché lui e Machond (il protagonista, ndr) hanno un legame molto forte, che però non riescono a vedere, soprattutto lui. Ed era soprattutto questo che mi interessava, perché si può dire che tu vivi nelle tue idee, nei tuoi fantasmi, ma alla fine non vedi niente del mondo.
E torniamo poi al titolo del film che ne rappresenta anche il tema: che non è voler apparire felici agli altri, ma essere felici per se stessi. Questo ci insegna il finale, no?
Il finale è morte e rinascita. Per lui è tutto finito, vuole suicidarsi… ed è qui che divertente. Perché risponde al telefono. Torna alla realtà e il modo in cui lo fa è molto divertente, secondo me.